Scritti tra gli ultimi anni Novanta del Novecento e i primissimi anni Duemila, ma più volte ripresi e rielaborati, i racconti brevi che compongono questa raccolta programmaticamente intitolata Giorni pazzi, monna Lagia! - dove la monna Lagia a cui ci si rivolge è proprio la musa di Lapo Gianni menzionata nel celebre sonetto dantesco Guido, i' vorrei - rendono con spirito beffardo, e talora al limite del nonsenso, quella che era evidentemente la mia percezione dell'epoca, l'atmosfera che mi pareva di respirare più o meno consapevolmente al principio della macelleria sociale iniziata in Italia a fine secolo e ancora in corso oggi: una sorta di pazzia collettiva all'insegna del thatcheriano "esiste solo l'individuo", ossia del "ciascuno arraffi per sé tutto quello che riesce" da un lato e del "si salvi chi può, ognun per sé" dall'altro. Un clima che aleggia costantemente nei racconti, pur senza volersi mai fare espressamente riflessione teorica.
Non di rado diversi tra loro per atmosfera e ritmo, questi trenta testi brevi trovano una coerenza d'insieme, ma anche un'amplificazione dello straniamento, nell'essere stati lavati nella Commedia di Dante dopo la stesura definitiva; è infatti la struttura della prima cantica a ordinare le scalcagnate disavventure che si susseguono senza posa, in una sorta di processo mimetico, disseminandole anche di alter ego di personaggi più o meno familiari del poema, ora come attori ora come comparse. E forse non c'era momento più adatto di quest'ultimo scorcio del settecentesimo anniversario della morte del poeta per consentire loro di uscire a veder le stelle.